Pittura, grafica e fotografia alla Pinacoteca Züst


Quanto può influire un’invenzione tecnica sul modo in cui guardiamo il mondo? Cosa è accaduto alla pittura e alla scultura quando a metà Ottocento la fotografia arriva a sconvolgere il concetto stesso di arte, come da secoli lo si era pensato? Cosa ne è dell’opera d’arte “nell’epoca della riproducibilità tecnica”, arrivata oggi alle estreme conseguenze, in un mondo in cui siamo sommersi dalle immagini?

È nota la frase di Paul Gaugain: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita… Sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”.
Orgoglio e pregiudizio. Da un lato il pittore che vede nel suo lavoro la vera arte, dall’altro l’idea che con l’arte si crei, con la fotografia si riproduca solo meccanicamente. Un dogma sviluppatosi a metà Ottocento che ha continuato a dominare anche nei decenni successivi e che, sia pure a denti stetti, alcuni continuano a praticare ancora oggi. La fotografia darà invece origine ad un nuovo modo di rapportarsi al reale e molti saranno gli artisti che sapranno fare un uso originale del nuovo mezzo.

La mostra propone un confronto serrato e stimolante tra fotografie, dipinti, incisioni, disegni, libri, permettendo di comprendere come quella di metà Ottocento fu una vera e propria rivoluzione nel modo di vedere la realtà e di diffondere conoscenze e informazioni da cui non ci sarebbe stato ritorno.

L’intensa esposizione “Arte e arti. Pittura, grafica e fotografia nell’Ottocento” – proposta dal 20 ottobre 2019 al 2 febbraio 2020 alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, a Rancate nel Cantone Ticino – accanto al rapporto fotografia e arte indaga anche una ulteriore declinazione del verbo riprodurre: quello della incisione.
Molti gli importanti elementi di riflessione che emergono dal confronto tra le arti: pittura, fotografia, incisione. L’epicentro dello scontro ideologico, o dell’utile connubio, tra obiettivo e pennello, è collocato in Francia, laddove è nata la fotografia. Erano gli anni dello sviluppo della pittura en plein air che condusse all’Impressionismo.

È ad uno straordinario artista che di questa transizione fu protagonista, Jean-Baptiste-Camille Corot, che la mostra alla Züst riserva un originale omaggio. Del grande maestro vengono proposti paesaggi straordinari: dipinti, disegni e incisioni. Accanto ad una suite d’eccezione di suoi cliché-verre, punto di trasmutazione tra fotografia e arte figurativa. Oggi rarissimi, essi sono letteralmente “immagini di vetro”: una lastra di questo veniva ricoperta da uno strato di materiale opaco, che veniva poi inciso dall’artista. In seguito si effettuava la stampa su carta fotosensibile che, esposta alla luce, catturava e fissava l’immagine. Ne sortivano visioni dal grande fascino.

La mostra presenta quindi una carrellata di opere provenienti da Arras, nel periodo in cui fu il luogo delle invenzioni delle tecniche, mentre Fontainebleau era la fonte di ispirazione paesaggistica dei pittori di Barbizon come Daubigny, Desavary, Dutilleux e Théodore Rousseau, allargando l’indagine sull’italiano Fontanesi. Una precisa citazione è quindi riservata a Millet, le cui opere venivano diffuse ricorrendo alla tecnica della eliografia.

La mostra approfondisce esempi offerti da noti pittori ticinesi e italiani. Luigi Rossi ai primi del Novecento utilizza, ad esempio, la fotografia quale complemento ideale all’album di schizzi nella costruzione della posa, come avviene nei dipinti Primi raggi e Riposo. Così come Filippo Franzoni fa largo uso della nuova tecnica

nella costruzione di autoritratti e paesaggi, mentre Luigi Monteverde inizia addirittura la sua carriera come fotografo.
Fra gli artisti italiani saranno proposti lavori di autori che fin dagli anni sessanta dell’Ottocento hanno affrontato il rapporto con il mezzo fotografico. Tra questi Filippo Carcano, il quale a causa delle “inquadrature” moderne delle sue opere, venne accusato dalla critica artistica di un uso “improprio” della fotografia; di Domenico Induno che in alcuni lavori fece dialogare direttamente i personaggi delle sue tele con le fotografie; di Federico Faruffini che abbandonò la pittura proprio per aprire uno studio fotografico in via Margutta a Roma; di Achille Tominetti, Uberto dell’Orto e Angelo Morbelli, autori che nella loro produzione hanno utilizzato la fotografia come importante mezzo di indagine sul vero. Ed infine Francesco Paolo Michetti per il quale questa ha avuto ruoli ben diversi, tra gli anni settanta e i primi ottanta intesa come un sussidio iconico sostitutivo del modello, tra la metà degli anni ottanta e gli anni novanta come strumento conoscitivo di indagine sul vero, per poi diventare, dopo il 1900, espressione autonoma della creatività dell’artista. Da non tralasciare il nucleo di approfondimento che la mostra riserva ai tre artisti della famiglia Vela: ai due scultori – il celebre Vincenzo e suo fratello Lorenzo, specializzato nel raffigurare animali – ma anche a Spartaco, interessante pittore.

Un’apposita sezione servirà a documentare tecniche e strumenti a supporto della riproduzione delle immagini: macchine fotografiche e lastre d’epoca, stereoscopio, ma anche pietra litografica, tavola silografica, rame.

In catalogo saggi di Matteo Bianchi, curatore della mostra, Elisabetta Chiodini, studiosa dell’Ottocento italiano, e, sul versante francese, di Mélanie Lerat – conservatrice del Musée des Beaux-Arts d’Arras -, di Michel Melot – già conservatore del Cabinet des Estampes della Bibliothèque nationale di Parigi – e di Dominique Horbez, autore del volume D’Arras à Barbizon.

L’intera mostra si snoda su un binario doppio: una “linea” riservata ai dipinti, una parallela alle fotografie (con importante presenza di originali) che ricostruiscono il processo creativo seguito dagli artisti.
Un tema affascinante, indagato anche attraverso la presenza di numerosi inediti da collezioni private, che questa rassegna ha il merito di far scoprire al grande pubblico.

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