Max Pezzali
Max Pezzali ph Tomo Brejc

Max Pezzali si racconta su Vanity Fair


Il protagonista del nuovo numero di Vanity Fair è Max Pezzali. Simbolo degli anni Novanta come pochi altri e fenomeno culturale senza tempo, chiude un anno che non ha precedenti: la prima tournée negli stadi; la serie Sky Hanno ucciso l’uomo ragno; l’album Max Forever Vol. 1; i live (anche nella notte di San Silvestro), che vanno avanti fino a febbraio 2025, in attesa del Max Forever Grand Prix, il 12 luglio all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola. Intanto lui è rimasto quello che dice: «Figata, ma a chi può interessare una serie sugli 883?».  

Vanity Fair ha svelato alcuni momenti mai raccontati prima, le conseguenze del successo e dell’amore, quello che sarebbe accaduto se Repetto non fosse mai partito per Miami (o fosse tornato). Ancora: l’educazione sentimentale che sta dando al figlio Hilo e certe lezioni che valgono per tutta la vita.

Sulla sua adolescenza: 

«Sono stato uno sfigato di proporzioni abbastanza monumentali fino al 1982-1983, il classico nerd ma forse no. Supermiope, venivo proprio emarginato perché ero il quattrocchi in vetrina, il ragionier Filini della classe. Adesso è di moda raccontarlo, all’epoca ero ostracizzato e basta. Sono cresciuto un po’ più tardi degli altri: loro uscivano e io ancora stavo lì a giocare, che ne so, con i pupazzetti. Finché, a un certo punto, ho spostato la mia attenzione sulla musica, su un genere un po’ ostico per sentirmi culturalmente diverso e non semplicemente escluso: l’heavy metal degli Iron Maiden e dei Saxon».

Sul successo: 

«Già il terzo album mi sembrava un miracolo. Non ho una voce della madonna, nemmeno una fisicità strepitosa e non potevo ambire a diventare uno showman che canta recita e balla. Credevo in un futuro breve ma eroico, consapevole della caducità del pop».

Su Mauro Repetto:

«Sono abbastanza sicuro che, a un certo punto, avremmo abbandonato la musica con tutti i rischi contrattuali del caso: comunque a Mauro andava stretto ballare e fare i cori. Avremmo trovato altro da costruire insieme».

Su Claudio Cecchetto:

«Quando certi ingranaggi si bloccano così è perché ci sono delle ottime ragioni. Non a tutto si può applicare l’arte giapponese del kintsugi, del rimettere insieme i pezzi. Ma è giusto: si cresce anche con gli scontri, i conflitti, le rotture».


Su Sanremo:
«In quella platea non c’è nessuno che è lì per te: sono lì a vedere che cosa puoi sbagliare, non che cosa puoi fare bene. Se sei un tipo ansioso, sei finito».

Sul figlio:

«Sono uno di quei genitori che gli educatori non approvano: faccio l’amico. Poco rigore, poca autorevolezza. Per fortuna mio figlio mi compensa: è ligio, preciso, osserva le regole, mai successo di doverlo svegliare per andare a scuola… Forse anche per la discalculia che gli è stata diagnosticata di recente, è proprio mentalmente disciplinato».

«Gli ho spiegato che non esiste il possesso, che nessuno è di nessuno. Insisto molto sul fatto che non deve arrivare a pensare: “Non posso vivere senza quella persona”. Voglio tenerlo lontano dalle espressioni e dagli atteggiamenti assoluti. Per esempio, la formula del matrimonio “finché morte non ci separi” non ha più senso: non è un fallimento se non si sta insieme per sempre. Hanno cambiato il Padre nostro, potrebbero cambiare pure quella». 

L’intervista completa è disponibile sul numero di Vanity Fair in edicola dal 31 dicembre e sul sito vanityfair.it

Giornalista: Chiara Oltolini

Fotografo: Tomo Brejc

Servizio: Chiara Spennato

Fashion Credits:

  • Cover look: Giacca e pantaloni di denim, Cycle Jeans; Orologio Riviera Baume & Mercier; Scarpe Dr. Martens.

Comunicato Stampa: Marta Romanati


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