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Marracash si racconta a GQ Italia


Il nuovo numero di GQ Italia, in edicola dal 3 dicembre, è dedicato ai Men of The Year del 2021.

Eccezionalmente quattro copertine che ritraggono i personaggi che GQ ha scelto a livello globale come gli uomini dell’anno: Tom Holland, al cinema a metà dicembre con l’ultimo Spider Man, per GQ “il supereroe dell’anno”; Lil Nas X, per GQ “il musicista dell’anno”, sia per il successo planetario del suo nuovo disco, sia per le tematiche di genere che promuove in una scena molto maschile come quella rap; Giannīs Antetokounmpo, “l’atleta dell’anno”, l’uomo che sta dominando l’NBA e che con la sua storia incredibile, che racconta a GQ, sta ispirando milioni di giovani nel mondo; e Marracash primo in tutte le classifiche con il suo ultimo disco.

GQ Italia dedica un servizio fotografico esclusivo al rapper italiano che si racconta a Federico Sarica, Head of Editorial Content di GQ Italia, attraverso una lunga intervista rilasciata a poche ore dal lancio a sorpresa di Noi, Loro, Gli Altri (Universal Music), il disco che da un paio di settimane è al centro delle discussioni pubbliche e private.

Marracash a GQ Italia ne racconta la genesi ma parla anche di rap, musica, dibattito pubblico, maturità di un uomo e di un artista.

In merito al dibattito pubblico dichiara:

«In un pezzo come Cosplayer prendo posizione, per esempio. E quando lo faccio sono convinto, però poi a me interessa capire cosa vuol dire prendere posizione: si dice sempre che è molto facile odiare sui social, ed è vero, ma è anche molto facile appoggiare questa o quella causa, è gratuito e non ti devi neanche mettere il cappotto per uscire.

Di fatto, non prendo facili posizioni perché quello per me non è prendere posizione. È rumore di fondo. Inquina. Non fa niente, non crea niente, è troppo facile e troppo trendy. Non c’è nulla di scomodo o difficile nel fare così.

Sul percorso che Il rap ha avuto in Italia commenta:

«Quale altro genere in Italia ha avuto un percorso come quello dell’hip hop negli ultimi venticinque anni? Nessuno. Ecco, è incredibile averne fatto parte da protagonista. È difficile estraniarsi, guardare da fuori e pensare “cazzo, abbiamo fatto parte di questa roba”. Però è un fatto. Io non sono mai stato un oltranzista e penso che l’errore dei puristi del rap sia non capire che tutto, per sopravvivere, deve evolversi.

Detto questo a me lo spirito del rap sembra ancora molto vivo, anche se molte cose sono cambiate. Una su tutte: sono entrati in gioco un sacco di soldi. Questo rende i giovani potenzialmente a un passo dal guadagnare cifre rilevanti in fretta e molto presto, e ciò fa sì che il genere attiri gente molto diversa; quelli della mia generazione avevano una predisposizione a questa musica che era fatta di un misto di ossessione e di ricerca di libertà, anche perché i soldi erano veramente un miraggio.

Adesso non lo sono più e questo fa sì che, all’interno del nostro ambiente, ci siano più intrattenitori che artisti. Non c’è niente di male, intendiamoci, però è un fatto che ci siano carriere costruite più sul concetto di testimonial che di musicista.

Questo è la conseguenza di un genere che si è molto ampliato, e all’interno di esso non è più detto che tutti facciamo lo stesso mestiere. È normale, ci sta».

Sul suo rapporto con la fama e il successo racconta:

«Onestamente? A me essere famoso rompe un po’ i coglioni. Ma credo sia una cosa molto personale. Io ho cambiato idea mille volte, ho pensato anche io per un po’ che essere celebre fosse il fine ultimo, ma poi ho capito che non è quello che voglio dalla vita.

Il successo per me è riuscire a fare quello che vuoi e che sogni, se invece fai quello che sognano gli altri per te, alla fine perdi comunque vada. Il denaro serve per comprarti un pezzo di libertà.

Marracash racconta poi il suo rapporto con la moda:

«Mi interessa meno di quanto pensassi. Ed è un’altra delle cose che ho capito nel tempo. C’è modo e modo di averci a che fare.

C’è chi ci si butta totalmente e ne diventa quasi uno strumento; è quello che io chiamo l’artista testimonial. Io ho il mio stile, che è diventato col tempo un po’ più classico, ma ho capito che fare quel tipo di competizione, sul possedere il capo che va di più o la prossima figata, non fa per me.

Mi diverte la moda, ma non ne sono schiavo. Alcuni colleghi ci perdono troppo tempo, siamo musicisti, a volte secondo me si passa il confine.

Secondo me lo show a tutti i costi alla fine non paga, a meno che il tuo obiettivo professionale non sia fare l’indossatore per i brand, che è un’altra carriera, una cosa diversa. Non è un caso però che chi sceglie quella strada, legittima, finisca per vendere pochi dischi e fare meno concerti».


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