Tony Cercola ha tanto da raccontare. Con i suoi tamburi e le sue buàtte ha infatti attraversato quarant’anni di musica, partendo proprio dalla Napoli degli anni Settanta, che vedeva sbocciare quel fermento sonoro chiamato Naples Power o Neapolitan Power. Il percussionista è cresciuto infatti insieme a grandi protagonisti di quel movimento musicale come Pino Daniele, James Senese, Edoardo ed Eugenio Bennato, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e tantissimi altri. Sue le percussioni nel brano Appocundria, uno dei dodici pezzi pregiati contenuti nell’album-capolavoro di Pino Daniele, Nero a metà. In diverse occasione, infatti, Cercola ha arricchito il sound di artisti italiani e internazionali di grande prestigio, imboccando poi la strada del ‘percussautore’, come ama definirsi, autore di brani con una forte connotazione etnica. Pochi mesi fa è uscito il suo nuovo album, Patatrac!, che contiene otto inediti e quattro suoi vecchi successi a cui ha voluto dare nuova linfa con il contributo di giovani artisti di talento scovati da Roma fino all’Africa, passando per la Campania e la Sicilia: Roberta Albanesi, Ugo Mazzei, Esharef Ali Mhagag, Paky Palmieri, Laye Ba, e poi gruppi come gli Original Sicilian Style, Max Russo and Divinos, Wireframe e Malacrjanza. Nel disco spiccano gli interventi di Eugenio Bennato e Mimmo Cavallo, due decani della nostra canzone, mentre alla scrittura e agli arrangiamenti degli inediti ha partecipato il musicista e produttore Gino Magurno. Candidato al Premio Tenco 2016 nella sezione Miglior album in dialetto, Patatrac! conferma l’attaccamento di Cercola alle proprie radici, che continua a contaminare con i suoni e i ritmi dell’Africa e del Sudamerica.
Tony, quando hai deciso di fare Patatrac!?
Tutto è partito da un libro autobiografico uscito pochi mesi fa, Come conquistare il mondo con una buàtta, scritto insieme ad Antonio G. D’Errico e edito da Edizioni Anordest, nel quale ho raccontato le mie radici vesuviane, del bullismo, della mia balbuzie e dell’incontro con Sandro Petrone a Radio Uno Napoli. È dedicato ai giovani provenienti dalle province, perché io sono originario di Cercola, piccolo paese alle falde del Vesuvio, e so quanto sia faticoso emergere quando vieni dalla periferia. Dopo l’uscita del libro, ho pensato di restituire alle nuove generazioni il sound che ho elaborato negli ultimi trent’anni. E così è nato Patatrac!. Sono sceso nelle cantine e ho lavorato con giovani musicisti alla rielaborazione dei miei pezzi. Loro sono riusciti a dargli freschezza. Ho ripreso Babbasone, con cui partecipai al Festivalbar del 1990, rifatta insieme ai Malacrjanza, gruppo hip hop di Napoli. Con il dj Paky Palmieri e il musicista senegalese Laye Ba ho rimaneggiato Lumumba, pezzo del 1988. Nel disco ci sono anche delle chicche d’autore, delle mie malinconie, come Tiemp’ tiemp’, incisa con Eugenio Bennato, e Compassion. Perché io da sempre mi sento un ‘percussautore’.
Tu hai vissuto dall’interno il fiorire del Naples Power. Cosa ti è rimasto di quel periodo?
Era una grande palestra. Era una Napoli di studio e di riflessione. Mentre muovevo i primi passi ho ricevuto tanti consigli, soprattutto dal batterista e cantante Gegè Di Giacomo. In molti, infatti, mi considerano un suo erede. In quel periodo lavoravamo tantissimo sul sound. La forza di Napoli è stata quella di far incontrare le proprie radici musicali con i suoni di tutto il mondo. Anche Pino [Daniele], che si esprimeva con la forma canzone, non si faceva comandare dal blues. Purtroppo ci si vede sempre di meno tra musicisti napoletani, l’ultima sinergia l’ha creata Pino, radunandoci all’Arena di Verona qualche anno fa e poi in altre occasioni. Sono orgoglioso di essere metropolitano e vesuviano.
Com’è oggi la situazione artistica in città?
Oggi il movimento musicale c’è, ma lo devi andare a cercare. È anarchico e ben nascosto. Io sono stato fortunato perché ho trovato giovani disposti a sperimentare insieme a me. Spero che ritorni il periodo in cui si faceva musica insieme, in sintonia, è l’unico modo per alimentare le nostre radici, solo così ci può essere evoluzione.
Tra poco sarai protagonista dello spettacolo teatrale ‘Tu, tu che mestiere fai?’.
Ripropongo in prosa la mia storia, quella che racconto nel libro, con un’attrice e tre musicisti. Mostro foto e filmati dei passaggi televisivi più importanti della mia carriera, quando la tv era un bomba mediatica che ti portava nelle case di milioni di persone. Oggi invece c’è parecchia dispersione dell’attenzione con una miriade di canali.
Pochi giorni fa è scomparso Dario Fo. Tu hai lavorato spesso con lui, qual è il tuo ricordo?
Ho accompagnato Dario in diverse occasioni, era un grande artista. Mi ricordo che feci un provino a casa sua e lui mi disse: “Io ho rubato una cosa a Napoli: le pause di Eduardo De Filippo”.
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